di Gaetano Cellura Su Auschwitz è stato detto tanto, tantissimo. Ma non è stato detto tutto. Per il professor Agamben (Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri) vi è un suo aspetto – etico, biopolitico – non sufficientemente spiegato. E riguarda la figura del cosiddetto “Musulmano”, quantunque questa figura sia di assoluta necessità in ogni testimonianza – non solo in quella di Primo Levi.

Nel gergo di Auschwitz il “Musulmano” è l’internato giunto a un “tale stato di perdita di coscienza da essere completamente apatico. Agamben dice di essere rimasto particolarmente colpito dal filmato che gli Alleati girarono dopo aver liberato il campo di Bergen Belsen. “La cinepresa inquadra i mucchi di cadaveri e poi a un certo punto si scosta e per caso cade su alcune figure che sembrano delle larve umane”. Ecco, questa è l’unica “apparizione documentata di internati ridotti allo stato di musulmani”, allo stato di assoluta apatia. Ma appena la camera li inquadra, subito si scosta, torna sui cadaveri. Perché non vi si sofferma? Perché gli studi su Auschwitz hanno sufficientemente chiarito il quadro storico, giuridico, burocratico e tecnico dello sterminio e si sono fermati, quasi a rimuoverlo dalla storia, di fronte al suo aspetto etico-politico? Perché viene più facile guardare i cadaveri che il musulmano, larva fisica e mentale?

Per il filosofo Giorgio Agamben si tratta di domande di grande interesse ma a cui non è facile rispondere. Forse perché la risposta giusta implica il fallimento totale dell’etica del Novecento. E con questo fallimento anche il fatto incontestabile che ogni testimonianza, come diceva Levi, contiene una lacuna, un non detto. Il musulmano “prima di morire ha già cessato di vivere”. La sua, e lui stesso, sono quel che resta di una testimonianza incompleta, taciuta. Delegata a un terzo, che non può esprimerla.

Primo, perché è una delega vuota di contenuto. Secondo, perché priva del senso di responsabilità del sopravvissuto in quanto tale. Agamben vuol dimostrare che la testimonianza è sempre vera, ma che c’è in essa un non detto: il non detto che dobbiamo indagare.

Nessuno/testimonia per il/testimone. Attorno a queste parole di Paul Celan, il filosofo Giorgio Agamben enuncia, prova a enunciare una “dottrina della testimonianza”: in un libretto di appena ottantotto pagine, Quando la casa brucia. Della testimonianza e del suo legame indissolubile con la verità. Nel senso che non esiste una testimonianza che non sia vera: “si dà o non si dà, semplicemente”. Ѐ vera perché, a differenza di quanto avviene in tribunale, ciò che il testimone dice “non può essere sottoposto a verificazione, non può essere vero o falso”. Perché egli si pone “alla fine dei tempi, apostrofa un mondo che sta per finire”, senza dunque generazioni future che possono confermare o smentire la sua verità …

L’articolo completo Il valore della testimonianza è su Instoria.it n. 198 giugno 2024