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Più di quarant’anni dopo i ricordi sono ancora nitidi. Perché ognuno di noi, credo, ha avuto una parente, un’amica, la figlia di un amico obbligate a provare il dolore atroce e l’umiliazione dell’aborto clandestino sul tavolo di cucina di una mammana. Quella sonda piantata nel corpo, con il rischio di morire o (se andava bene) di una grave infezione.

Non tutte erano ragazze lasciate dal fidanzato e con la paura di essere pure cacciate  di casa dai genitori quelle che ricorrevano all’interruzione di una gravidanza indesiderata. C’erano anche madri di famiglia, la casa già piena di figli, che finivano sul tavolo clandestino delle mammane di Ravanusa, di Gela, di Vittoria o di Siracusa le città più vicine dove le donne di Licata si recavano perché non c’era ancora una legge dello Stato a garantire il loro diritto all’integrità fisica e morale in un ospedale; e alla libertà di non tenersi nel grembo il frutto indesiderato.

Quella legge – la 194 – entra in vigore nella primavera del 1978. Viene approvata nei giorni convulsi dell’omicidio di Aldo Moro, con l’opinione pubblica (in specie la cattolica integralista) distratta da quell’avvenimento fortemente emotivo e con un parlamento diviso: la Dc e il Msi da una parte, la sinistra e i laici liberali dall’altra.

Vi si arriva dopo lunghe manifestazioni pubbliche, protagoniste le donne e i radicali italiani che raccoglievano le firme per indire un referendum. La Chiesa e i movimenti per la vita schierati sul fronte opposto. Nel 1973 il caso della ragazza veneta di 17 anni Gigliola Pierobon, processata per aver interrotto la gravidanza, dà il via alla battaglia. Che vede il Movimento delle donne in prima linea al grido di “aborto libero per non morire e contraccezione per non abortire”. Il clima era reso favorevole dalla vittoria del referendum sul divorzio del 1974. Altra conquista, ritenuta di libertà laica e di civiltà.

Di quegli anni ci restano il ricordo personale di molte donne conosciute che hanno vissuto e raccontato il dramma e il trauma dell’aborto clandestino, di mammane irresponsabili, ma anche di un approccio al problema che era molto politico. Molto ideologico. E che contrapponeva i diritti e la vita della donna a quelli del bambino, i diritti e la vita della persona a quelli di chi persona doveva ancora diventare. E si capisce quali diritti venivano privilegiati. Perché quarant’anni fa le conoscenze scientifiche sul feto e sulla fase prenatale non erano quelle di oggi. E molto limitati o trascurati erano pure gli studi sulle cause sociali e culturali che spingevano all’aborto. Un lavoro di aiuto, di sostegno psicologico ed economico alla donna in quel momento per lei di profonda solitudine avrebbe forse influito sulla sua decisione di interrompere la gravidanza.

Qualcosa bisogna dire sui ginecologi abortisti o obiettori di coscienza. L’invito è a leggere il libro del dottor Massimo Segato L’ho fatto per le donne. Confessioni di un ginecologo non obiettore. Lui ha scelto di osservare la legge 194, ma mostra profondo rispetto per il 70 per cento di colleghi obiettori. Perlopiù donne. Donne che, dopo aver portato a termine la gravidanza, hanno deciso nella vita professionale di non praticarne l’interruzione. D’altra parte “non esistono medici abortisti, siamo tutti antiabortisti, solo che qualcuno – dice il medico scrittore – si porta sulle spalle questo macigno”.

Segato racconta di aver sbagliato un giorno ad aspirare un embrione. La donna restò incinta ed era furiosa con lui. Ma mesi dopo s’incontrarono. Lei aveva il bambino in braccio. Ed era felice. E lo ringraziava di quel suo errore. “Invece – dice il dottor Segato – non ho mai visto una donna felice dopo l’aborto”. Perché il dolore la tormenterà per sempre, e quando avrà altri figli “non cesserà di pensare a quello mai nato”.

Gaetano Cellura