E’ stato il maggiore scandalo della recente storia politica. Tanti film (il più noto: Tutti gli uomini del Presidente) e tanti libri se ne sono occupati. Ma a cinquant’anni dalla notte del 17 giugno 1972, quando cinque uomini entrarono forzandone la porta nella stanza 214 dell’hotel Watergate di Washington, non tutto è ancora completamente chiaro. Il Presidente soprattutto, costretto due anni dopo alle dimissioni per evitare l’impeachment, e tutti i suoi uomini coinvolti nel losco affare ne pagarono le conseguenze. Ma resta incerta la verità su chi diede l’ordine di perquisire illegalmente gli uffici del Comitato nazionale dei democratici nel vivo della campagna per le Presidenziali.
“Non fu Nixon. Non in quel caso” – ci dice Garrett Graff (La Lettura del 5 giugno scorso), autore di Watergate. A New History.
“Non in quel caso”. Ma in molti altri sì. Come emerge dalle registrazioni delle conversazioni del Presidente diffuse negli ultimi vent’anni. Ascoltarle fu sconvolgente per gli americani, che in lui vedevano (parole del romanziere Thomas Mallon) “un uomo rigido, abbottonato, incapace di lasciarsi andare”. La responsabilità diretta del Watergate ricade sugli uomini del suo staff. Ma si può affermare con sicurezza che Richard Nixon, prossimo alla rielezione alla presidenza degli Stati Uniti, nulla ne sapesse? E quale è stato il vero ruolo di “Gola profonda”, al secolo Mark Felt, vicedirettore dell’Fbi?
La risposta alla seconda domanda pare essere più semplice. La “Gola profonda” che mise al corrente dello scandalo i due giornalisti del Washington Post, Carl Bernstein e Bob Woodward (interpretati da Dustin Hoffman e Robert Redford in Tutti gli uomini del Presidente), non agì per motivazioni etiche, come ci è stato sempre raccontato. In realtà non perdonava a Nixon di avergli preferito Patrick Gray per il posto cui ambiva: la direzione dell’Fbi. Benché, come Felt poi disse, il suo intento originario fosse quello di danneggiare il nuovo direttore della polizia federale e non il capo della Casa Bianca. Che intanto, nonostante i primi articoli del Washington Post sul Watergate, veniva trionfalmente eletto presidente per la seconda volta. Ma i due giornalisti, nonostante i tentativi dall’alto di insabbiare lo scandalo, continuarono l’inchiesta. La più famosa e brillante della storia del giornalismo.
Garrett Graff parla di Nixon come di uno tra i più importanti presidenti americani del Novecento. A giocargli quel brutto scherzo fu la sua paranoia: temeva i complotti e di poterne essere vittima. Il Watergate, per Graff, non fu infatti un episodio. Fu uno dei tanti scandali distinti ma tutti collegati alla sua ossessione. Cosa cercavano i suoi uomini nella Scandal Room, la sede elettorale del Partito democratico? Non certo documenti da usare contro il concorrente alla Casa Bianca, McGovern. Nixon era così forte da non averne bisogno. Vinse le elezioni con il 60 per cento del voto popolare. Cercavano invece carte che l’avversario poteva usare contro il presidente, soprattutto i tanto temuti Pentagon Papers sulla guerra in Vietnam. Ma anche – si è saputo dopo – possibili finanziamenti illegali alla sua campagna elettorale, tra cui quelli arrivati (si diceva) dalla Grecia dei Colonnelli. Materiale di cui allora non c’era alcuna prova ma che ugualmente ossessionava le notti di Nixon. Finché poterono, per due lunghi anni, i repubblicani americani fecero quadrato attorno al loro Presidente.
Ma quando l’incalzante inchiesta di Bernstein e Woodward mise in chiaro le prove della conspiracy anche i suoi più fidati collaboratori si arresero all’evidenza. Richard Nixon aveva mentito agli americani e mostrato disprezzo nei confronti del popolo e delle istituzioni del paese. Il Watergate, più che come un’ottima spy story, va visto come prova di un giornalismo indipendente e coraggioso.
Gaetano Cellura