Pubblicità

“Le ore 11 del 14 luglio/dalla Camera usciva Togliatti/quattro colpi gli furono sparati…” cantano Francesco De Gregori e Giovanna Marini. E anche questa bella canzone sull’attentato di settant’anni fa al leader del Partito comunista (Album Il fischio del vapore, 2002) ha fatto storia.

A sparargli è un giovane siciliano di Catania che si chiama Antonio Pallante, studente fuori corso di giurisprudenza “vile e senza cuor” definito nella canzone. E che dice di non essere iscritto a nessun partito e di aver agito – senza complici e mandanti – per uno scopo suo “personal”.

Pallante ha in tasca il tesserino di un giornale monarchico – il che non rende sospetta la sua presenza nelle vicinanze di Montecitorio. E si seppe poi delle sue simpatie nazifasciste: nella sua camera venne trovata una copia del Mein Kampf di Hitler.

Protetto prima con il corpo da Nilde Iotti, mentre giace a terra, e poi trasportato all’ospedale, Togliatti viene operato nel pomeriggio dall’ “onorato chirurgo Valdoni”. Delle ferite, la più grave è quella alla schiena, che interessa l’ilo del polmone sinistro. Due ore dopo, al risveglio dall’operazione riuscita, il sorriso più dolce lo riserva al figlio Aldino, arrivato da Torino con la madre Rita Montagnana su un aereo messo a disposizione dalla Fiat. Poi raccomanda la calma ai dirigenti del Pci, sopraggiunti in ospedale.

Sa che il momento è difficile, la situazione può precipitare, e potrebbe esserci un’insurrezione dei compagni e di quei partigiani che non hanno ancora consegnato le armi usate durante la guerra civile.

L’Italia è in effetti sconvolta dalla notizia cubitale dell’attentato. In specie al Nord ci sono scioperi ovunque e il professor Valletta viene sequestrato nel proprio ufficio alla Fiat. Il Sud, da cui proviene l’attentatore, resta al contrario quasi indifferente.

Almeno tre sono le ragioni per cui non scoppia l’insurrezione armata, benché vi siano militanti comunisti pronti ad agire. In primo luogo perché il governo, di cui i dirigenti del Pci vorrebbero le dimissioni, non perde mai il controllo dell’ordine pubblico. In secondo luogo perché l’ambasciatore dell’Unione Sovietica nega il sostegno a qualsiasi iniziativa con le armi. E infine per la contrarietà di Togliatti, maestro di realpolitik, a far passare la linea, all’interno del partito, di chi diceva imprudentemente: “Il 18 aprile ci siamo contati; oggi ci pesiamo”.

Qualche dubbio è stato sollevato sui possibili mandanti dell’attentato. C’è chi dice d’aver visto il capitano Perenze quella mattina del 14 luglio sulla piazza di Montecitorio. Il capitano che ritroviamo in Sicilia nel rinvenimento del cadavere di Giuliano. C’è chi sostiene che sia stata la mafia ad armare la mano di Pallante per conto dei servizi segreti americani. E c’è infine un altro particolare: quello del detenuto, entrato nella cella del carcere di Noto dov’era rinchiuso Pallante, che prendendolo per il collo lo avrebbe costretto a fare i nomi dei mandanti. E si legge nella biografia di Togliatti scritta da Giorgio Bocca che l’attentatore catanese avrebbe indicato “due personaggi siciliani altolocati”. Questo fatto diede origine a un processo immediato a carico del detenuto violento, condannato a tredici anni e rinchiuso in un manicomio criminale.

La tesi del complotto per uccidere Togliatti in quel luglio di settant’anni fa, in quel lungo Quarantotto della vittoria democristiana contro il blocco delle sinistre, è esclusa da Ferruccio Parri: “I proiettili erano difettosi. Non è pensabile – fa notare – che dei mandanti specializzati nel crimine fornissero a Pallante un’arma così difettosa”.

I dubbi restano tuttavia. Anche perché nei servizi di sicurezza del partito nessuno è disposto a credere che la mafia non c’entri e che l’attentatore sia un semplice fascista squilibrato il cui scopo è impedire che l’Italia finisca in braccio al Cominform. Ma l’inchiesta governativa – scrive Bocca – è rapida e superficiale. E il processo si conclude con la condanna di Pallante a vent’anni, poi ridotti a tredici.

Gaetano Cellura