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“È tutta la mia vita” disse all’amico cui affidava la valigia. Dentro c’era la sua opera (intitolata Vita? O teatro?): 769 dipinti con la tecnica del “guazzo” accompagnati da parole e musica.

Charlotte Salomon si sentiva braccata dai nazisti: ogni giorno che passava lo vedeva come il suo ultimo giorno di libertà. Aveva superato i vent’anni questa giovane ebrea berlinese cui la vita aveva già dato tanto dolore: e ancora di più gliene riservava.

Il suo testamento artistico è conservato presso il Museo ebraico di Amsterdam, ma da quasi sessant’anni viene esposto in molti musei del mondo. Charlotte era guarita dalla depressione grazie all’arte da cui traeva tanta forza. La depressione che invece non ha risparmiato altre donne della sua famiglia, andate incontro a conseguenze tragiche: sua madre muore suicida quando lei ha nove anni e la stessa fine fa la nonna nel 1940. Il nazismo, nel pieno del suo potere, l’aveva umiliata impedendole di frequentare l’accademia di Belle Arti di Berlino e aveva umiliato suo padre radiandolo dalla professione di medico e internandolo nel campo di concentramento di Sachsenhausen.

Prima di finire ad Auschwitz la giovane pittrice aveva conosciuto un breve periodo d’internamento nel campo di Gurs (nei Pirenei) ad opera delle autorità francesi. Charlotte, dopo l’arresto di suo padre, aveva raggiunto il nonno che si era trasferito nel sud della Francia dove credeva di mettersi al riparo dalle persecuzioni. Ma non fu così. Perché vennero arrestati entrambi e rilasciati solo per le gravi condizioni di salute del vecchio.

Tra il 1940 e il 1942, dà il massimo della propria produzione artistica. Che non è altro che il racconto della sua vita, felice solo sino all’età di nove anni. Sino al momento in cui perde la madre. Da allora la vita è stata per lei solo dolore, tutto un dolore incessante: la scoperta del suicidio della madre, che le era stato nascosto, l’allontanamento dall’accademia, l’amore impossibile per il maestro di canto della matrigna, le persecuzioni subite, le parate e la propaganda nazista contro gli ebrei inermi rappresentate nei propri disegni. E a questo racconto, di 1325 fogli dentro una valigia in cu s’incontrano disegni, parole e musica, manca la parte finale. Manca Auschwitz. Dove l’arte non le sarebbe stata più d’aiuto.

Charlotte nel 1943 aveva sposato Alexander Nagler, altro rifugiato tedesco. Vennero arrestati insieme. Per una delazione tra le più vili che si conoscono. E in un posto – Villefranche-sur-Mer, lontano dalla Germania, lontano dalla guerra – dove lei, artista talentuosa, non dava fastidio a nessuno e dove credeva di poter ormai vivere tranquilla.

Finì invece nelle mani delle SS. Venne deportata ad Auschwitz e lì, nel tritacarne della follia nazista, morì appena arrivata. Charlotte Salomon, la donna che con “singolare e folle” vitalità ha unito indissolubilmente vita pittura e teatro per sopravvivere al dolore e alla barbarie, aveva ventisei anni ed era incinta di sei mesi. L’amico a cui aveva affidato la valigia con la propria opera, cioè con tutta la sua vita, era un medico. Come suo padre.

Gaetano Cellura