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È una storia incredibile ma vera. Come si fa a mettere in dubbio la parola del cavalier Aversa? Uno che mentre la raccontava gli venivano sempre le lacrime e agli ascoltatori le faceva venire?

È la storia di una bomba (lunga un metro e mezzo, forse due) che, durante la guerra, avrebbe potuto distruggere la parte alta di Agrigento. Gli americani – diceva il cavalier Aversa – non erano ancora quelli dei pacchi di caffè, sigarette, gomme da masticare; e dello scordiamoci il passato, ora siamo amici. Erano quelli che sganciavano le bombe. E una – vero mostro di bomba – la fecero cadere sul nostro capoluogo. All’Itria, vicino alla Cattedrale, al palazzo vescovile, al seminario.

Il mostro “con la testaccia” centra il serbatoio dell’acqua, che si trova proprio in quella parte di città, ma come per miracolo non esplode. Forse è il coperchio di legno marcio del serbatoio ad attutire l’urto. Forse è il suo fondo limaccioso e molle oppure l’acqua, abbondante per fortuna quel giorno nel serbatoio, a impedire il rientro della spoletta che avrebbe determinato l’esplosione.

Il cavalier Aversa racconta che si facevano tante congetture su quell’imprevisto (e fortunato per Agrigento) inceppamento della spoletta, ma soprattutto che erano tutti felici – uomini, donne, bambini – per lo scampato pericolo.

Lui era pompiere e fu dunque uno dei primi a correre lassù, all’Itria. C’erano anche l’Esercito e i carabinieri con le motociclette. E si procedette, sgombrata l’intera zona, con la massima cautela a legare la bomba con le funi, tirarla fuori con un’autogru e poi portarla lontano dal centro abitato: in una pianura di campagna tra Agrigento e Aragona per essere disinnescata.

Si asciugava le lacrime il Cavaliere. E pareva rivivere i fatti.

Lacrime che gli rispuntano quando arriva al finale della storia. Alla soluzione del mistero. Al perché quel “mostro” perfetto non è esploso. Si accorsero i pompieri, dopo averlo due volte lavato con spruzzi d’acqua, che la spoletta era saldata sulla superficie e non poteva dunque muoversi verso l’interno della bomba. Accanto, scritte forse con un chiodo, si riuscivano a leggere queste parole commoventi: “La Patria si serve anche da lontano”.

Chi era quell’italiano che aveva saldato la spoletta? Uno che lavorava in America certamente, nell’industria delle armi. O un soldato di origini italiane arruolato per la guerra dal paese di cui ora era cittadino.

Altro mistero.

Certo, uno che sapeva a chi era destinata quella bomba. E cioè all’Italia. Alla patria sua o dei suoi genitori. E quale rischio aveva corso rendendola innocua! Certo, non sapeva dove sarebbe caduta di preciso, in quale città. Ma se mezza Agrigento non venne distrutta lo si deve a lui. A questo sconosciuto compatriota che gli agrigentini non potranno mai ringraziare.

Niente dunque fece da ammortizzatore all’urto della bomba. Né il coperchio marcio del serbatoio, né l’acqua o il fango all’interno, come in un primo momento si pensava. La bomba non era esplosa perché qualcuno, un italiano sconosciuto, l’aveva manomessa. Per dimostrare che anche in questo modo si può servire la patria lontana. E forse il cavalier Aversa, più di tutti, ha sentito sempre il rammarico di non averlo conosciuto.

Gaetano Cellura

Fonte storica: L’Altra Agrigento online.

Foto: Archivio Magnum