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Le piazze sono piene e lo scontro è vivo. Non importa quale delle due, ieri a Milano, fosse più piena. La sovranista che inneggia a Matteo, nuovo uomo della provvidenza, e se ne lascia trasportare. O l’altra che lo contesta vibratamente gridandogli di tutto e di più.

Importano invece – e lo dico, si capisce, alla piazza degli oppositori di sinistra – le politiche da mettere in atto per prosciugare l’humus da cui trovano alimento i nuovi nazionalismi e il rancore per l’Unione europea.

Nel lungo e ancora incompleto processo di unità dell’Europa, andato avanti a piccoli passi dal dopoguerra, le socialdemocrazie continentali hanno vissuto il loro momento aureo quando hanno posto il welfare, e cioè lo scudo contro povertà e depressioni, al centro delle loro politiche. Quando un grande economista come Keynes era il loro faro e non stava nella cassetta degli attrezzi dove è poi finito e ancora rimane. Del capitalismo Keynes aveva un’opinione negativa, ma non sino al punto di volerlo cambiare. Anzi, lo voleva salvare. Perché era il “solo motore in grado di produrre ricchezza”. Ma per salvarlo e fare in modo che i lavoratori sfruttati rimanessero insensibili alle sirene del comunismo, bisognava riformarlo il capitalismo, riformarlo profondamente. Con l’intervento dello Stato in un sistema economico che non era in grado di autoregolarsi. Con più intervento pubblico per far fronte alle diseguaglianze sociali prodotte dall’economia di mercato e per raggiungere la piena occupazione. I suoi avversari lo consideravano uno scialacquatore di denaro pubblico, ma così non era perché la sua teoria prevedeva politiche di spesa ma di “obbligo per legge del pareggio di parte corrente”.

Per trent’anni questo pensiero economico, sposato dalle socialdemocrazie europee, ne fece le fortune. Sino a quando, improvvidamente, non abbandonarono la vecchia strada, ritenendola superata, per imboccare quella tracciata dal laburista Tony Blair. E cioè dal continuatore delle politiche liberiste della Thatcher. In quel momento le sinistre hanno smesso di fare il loro mestiere. In quel momento hanno commesso il maggior errore. Perché le povertà e le disuguaglianze restavano e venivano anzi ingigantite dalla globalizzazione. E tutto questo avveniva mentre l’Europa accelerava il proprio processo unitario, con nuovi Trattati, nuove istituzioni e una nuova moneta. Ma con politiche di austerity che finivano per affamare i popoli.

Sono le politiche contestate oggi in Europa dalle forze sovraniste. Che in molti casi interpretano e cavalcano i bisogni di quegli strati popolari abbandonati da tempo dalle sinistre europee. Le sinistre che non vanno più nelle periferie dove risiede il grande disagio sociale e che non si preoccupano per nulla di un’Unione europea sbagliata in radice e lontana anni luce da quella sognata dai suoi padri fondatori.

Non è con gli striscioni ai balconi, con le contestazioni di piazza o con la maschera di Zorro, ultima trovata di ieri vista Milano, che si recupera il terreno perduto e ora occupato dai sovranisti e dalle destre più o meno estreme. Ma chiedendo ai partiti di sinistra, cui quella piazza di contestatori in vario modo s’ispira, di ritornare al loro vecchio mestiere, di ritornare a Keynes e di cambiare quest’Europa in mano ai magnati della finanza. Loro si sono presi tutto. Come ai tempi della grande depressione del 1929 che aprì la strada ai fascismi.

Gaetano Cellura