Pubblicità

Chi di noi, ventisei anni fa, non ebbe il timore (o addirittura il presentimento) che, dopo Falcone, poteva toccare a Borsellino?

L’offensiva stragista di Cosa nostra era partita: e come non pensare, come escludere che un’altra strage potesse seguire a quella di Capaci? La mafia aveva colpito uno dei due magistrati che l’avevano portata al maxiprocesso e al carcere duro, ma l’altro era ancora in vita, anzi era ancora in prima linea nella guerra che lo Stato non aveva vinto del tutto. Perché quello stesso Stato non mise in atto tutte le misure necessarie per proteggerlo?

Ed è proprio questa la prima delle tredici domande poste ieri (su Repubblica) da Fiammetta Borsellino, la figlia del magistrato ucciso il 19 luglio del 1992. E sempre ieri audita dalla Commissione antimafia all’Ars sui depistaggi seguiti alla strage di via d’Amelio. Depistaggi che le motivazioni del Borsellino quater hanno reso fatti acclarati, non più opinioni o fantasie.

Tredici domande non solo alle autorità dello stato, a quanti allora presero decisioni sbagliate (e non si sa se sbagliate in buona fede), ma alla coscienza pubblica del paese. Ammesso ne abbia ancora una questo nostro paese così mutevole, così propenso generalmente a dimenticare tutto e a farlo presto. Un paese in cui soltanto in pochi hanno cuore, a distanza di anni, la ricerca della verità e della giustizia.

Ma le domande di Fiammetta Borsellino sono qui a ricordarci – a noi che non vediamo l’ora di rimuovere il passato con tutto il suo carico di intrighi –, a ricordarci che niente è stato fatto prima per proteggere un  magistrato in trincea e poi per nascondere le scomode verità sulla sua fine.

Perché, chiede Fiammetta, il luogo della strage non fu preservato e fu consentita la “sottrazione dell’agenda rossa” con gli appunti del padre? Perché il procuratore Giammanco non lo informò di quanto aveva saputo dal Ros e cioè del tritolo arrivato a Palermo? Quello stesso procuratore che a Borsellino aveva negato il “coordinamento delle indagini su Palermo”?

E altre domande: sull’inesperienza in fatto di mafia dei giovani procuratori di Caltanissetta a cui erano state affidate le indagini. Su Arnaldo La Barbera, membro del Sisde e questore di Palermo. Sul mancato confronto tra il falso pentito Scarantino (le cui deposizioni indirizzarono il processo nella direzione del depistaggio) e i pentiti veri.

Come è possibile – si chiede – che, tra ritrattazioni e poi una ritrattazione della ritrattazione, contraddizioni varie, manomissioni di verbali, prese di distanza di alcuni magistrati riguardo alla credibilità delle dichiarazioni del pentito, la falsa verità emersa sia stata ritenuta attendibile persino dalla Cassazione?

Tutto è possibile nel paese delle stragi e dei depistaggi. Capaci e via D’Amelio non sono le prime – e le uniche – della nostra storia. E tutte accompagnate da sviamenti, furti di verità come li chiama Claudio Fava.

Gaetano Cellura