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giardinaGiacomo Giardina era di Godrano. E non so quanti, nel suo stesso paese, l’abbiano mai ricordato. Faceva il pecoraio, il venditore ambulante ed era poeta. Un poeta che voleva raddrizzare il mondo e i cui versi dunque avevano una carica rivoluzionaria.

“Quando noi milioni di gobbi ci uniremo/per raddrizzare questo mondo storto?”

Una domanda sospesa nel lungo tempo della nostra storia moderna, nel suo fiume limaccioso, e rivolta a tutti e a nessuno. Era futurista Giardina. E Marinetti lo definì “poeta record meridionale”. Definizione in linea con l’esuberanza e la vitalità (non solo retorica) di un movimento che, nei primi decenni del Novecento, influenzò la letteratura, le arti figurative e la politica.

Quanto fosse storto quel mondo, lo sappiamo – guerre in atto (in Libia) e in preparazione (le due mondiali e poi la bomba atomica di settant’anni fa); fascismi e totalitarismi: ideologie mortifere: deportazioni e stermini di massa del “diverso”, ebreo o zingaro. Lo sappiamo i più giovani, o meno anziani, per averlo appreso dai libri, dalla storia, dal cinema, dal racconto dei sopravvissuti al lager e al gulag.

Quanto sia storto il mondo d’oggi lo vediamo direttamente dall’orrore di tutti i giorni: le migrazioni di massa e le stragi in mare; e l’Europa civile e liberale in preda alla paura che alza muri e fili spinati, come facevano i paesi del socialismo reale.

E c’è voluto un camion con morti asfissiati in Austria, quindi non i morti senza fine nel Mediterraneo, non i sopravvissuti che bussano alla sua frontiera francese o serba o ungherese, non la guerra civile libica e l’insidia dell’Isis, per svegliarla e metterla finalmente di fronte a una tragedia epocale finora irresponsabilmente ignorata. E dopo aver visto l’orrore dobbiamo pure sopportare i discorsi xenofobi e razzisti di certa politica nostrana, che per raccattare voti parla alla pancia e non alla testa degli italiani, alimenta odi e paura. Dimenticando che, da sempre, l’uomo è straniero, estraneo (Kafka docet). Da sempre è in cerca di una patria.

Quando Giacomo Giardina, questo Dante ambulante di un paesino (poco più di mille abitanti) della provincia di Palermo, scrive “noi milioni di gobbi”, forse già riconosce   l’impreparazione, la nostra incapacità e irresponsabilità a correggere prima i nostri difetti e poi le storture e le ingiustizie del mondo. Ieri come oggi.

Sentiamo dire che i migranti cercano una vita migliore. Quella che cercavano un tempo siciliani e meridionali soprattutto. Gli uomini con lo “stemma di senza terra e di sconfitti”, e per i quali la nave poteva essere libertà o sepolcro, che un altro nostro scrittore, il grande Stefano D’Arrigo, descrive nella poesia Pregreca.

Ma i migranti di oggi non cercano una vita migliore. Cercano “una vita”. Quella negatagli da secoli di miseria, di sfruttamento e di colonialismo occidentale. E ora da un mondo che non vuole redistribuire la sua ricchezza.

Cosa volete che importi di loro a quell’uno per cento della popolazione del mondo che ne detiene il novantanove o ai nove banchieri che ogni anno si dividono utili e profitti della finanza globale? E soprattutto: cosa importa di loro alla sinistra, alle mute e inerti socialdemocrazie europee che hanno lasciato senza rappresentanza gli impoveriti, tutti gli impoveriti e i miserabili della terra?

Forse è dalla Sicilia dell’accoglienza, dalla frontiera meridionale che la sinistra dovrebbe ricominciare, riprendere il suo vecchio, interrotto, dimenticato discorso. Oppure – ma è un sogno – dai versi rivoluzionari di Giardina. Fare in modo che non restino rivolti a nessuno.

Gaetano Cellura

(Pubblicato su Ebdomadario, blog di Prova d’Autore)

Dello stesso Autore leggi pure su Licatanet (opinioni e cultura): Conversazioni di ferragosto: quando Pasolini rispose a Leone; e Latouche, l’economia come menzogna.