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Calogero-Mannino1-624x300Il processo dovrà pur finire prima o dopo. In un paese rispettoso dei diritti delle persone, rispettoso della giustizia così è: il processo inizia e a un certo punto finisce, non dura tutta la vita. Ventidue anni non sono tutta la vita, ma sono un lasso di tempo che credo farebbe disperare persino un santo.

È quanto succede all’ex ministro democristiano Calogero Mannino. La sua avventura/disavventura giudiziaria inizia nel 1994: concorso esterno in associazione mafiosa, l’accusa, e per lui si aprono le porte del carcere di Rebibbia.

Passano sedici anni e quattro processi prima che la Cassazione lo assolva definitivamente. A questo punto un cittadino avrà pur diritto a una vita tranquilla, senza giudici e avvocati, senza aule di giustizia e ingiusta gogna mediatica. In Italia no, questo non succede. Perché, finito un processo, un altro ne ricomincia a carico dello stesso cittadino: e, più o meno, con le stesse accuse.

Coinvolto nel processo sulla Trattativa tra lo Stato e la mafia, Calogero Mannino che cosa fa? Dopo aver dichiarato di sentirsi sottoposto al “martirio della pazienza”, chiede di essere giudicato con rito abbreviato, separatamente dagli altri imputati che scelgono il rito ordinario nel processo tuttora in corso.

L’ex ministro siciliano viene riconosciuto dal giudice Marina Petruzzella completamente estraneo ai fatti contestati. Non solo: lo stesso giudice censura “con una pesantezza inaudita – scrive Giuseppe Sottile sul Foglio – atti e comportamenti dei pubblici ministeri durante la raccolta delle cosiddette prove”. Le irregolarità annotate riguarderebbero gli interrogatori di Brusca e di Massimo Ciancimino, quest’ultimo testimone chiave nel processo sulla Trattativa. Che avrebbe preso avvio dai contatti di apparati dello Stato con suo padre, don Vito.

Assolto per la seconda volta, Calogero Mannino avrà pensato di aver finalmente trovato il suo “giudice a Berlino”. Frase celebre, attribuita senza riscontro a Brecht e  riferita alle traversie giudiziarie del mugnaio Arnold, condannato da varie corti a soggiacere ai soprusi di un signorotto, e che ricorre fino a Berlino dove sottopone il proprio caso a Federico il Grande, il giudice supremo che riconosce i suoi giusti diritti. Ebbene, questo giudice Mannino dovrà ancora cercarlo.

Lette le motivazioni della sua sentenza d’assoluzione, il giudice Di Matteo con i Pm che seguono nell’aula bunker dell’Ucciardone il processo agli altri nove imputati della Trattativa hanno proposto appello. Un appello necessario a tenerne vivo l’impianto, visto che tutto – e cioè la presunta trattativa tra lo Stato e la mafia – sarebbe cominciata, seconda l’accusa, dai timori dell’ex deputato e ministro di fare la stessa fine di Salvo Lima.

Restano da chiarire due cose. La prima: convincere amici e nemici di Mannino – scrive sempre Sottile – che la Costituzione parla di “giusto processo” da concludere in tempi ragionevoli. La seconda: perché gli stessi giudici che propongono appello trascurano nello stesso tempo le irregolarità esercitate dai colleghi nei metodi d’indagine e rese pubbliche nelle motivazioni della sentenza che assolve l’ex ministro?

Gaetano Cellura