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articolo_img_13_2459_federico-garcia-lorcaLa notte del 19 agosto 1936, in uno spiazzo di Viznar vicino a Granada, la scena illuminata dai fanali delle automobili, veniva fucilato Federico García Lorca, uno dei poeti più sensibili e delicati della storia. Ucciso ottant’anni fa perché omosessuale e perché schierato a favore del legittimo governo repubblicano di Madrid contro cui il 17 luglio dello stesso anno era scattato l’Alzamiento, la sollevazione militare per rovesciarlo. García Lorca aveva trentotto anni. Era nella lista del comandante Valdés: venne arrestato, e ucciso insieme a un maestro elementare e a due toreri. Tre anni prima, a Buenos Aires, dov’era andato per rappresentare una sua opera teatrale, aveva stretto amicizia con Pablo Neruda che ora si trovava in Spagna come console del suo paese. Incarico da cui il poeta cileno fu destituito, dal proprio governo, appena si mostrò a favore della Repubblica spagnola. Del delitto assurdo di Lorca, Neruda non seppe mai darsi pace. Era stato ammazzato un uomo rimasto sempre bambino, pieno di gioia e di allegria; il poeta più amato della sua terra e i cui versi sarebbero rimasti come pianto di chitarra impossibile da far tacere.

Chi era Federico?

A vent’anni aveva iniziato il Libro de Poemas che resterà la sua opera migliore, l’albero musicale germogliato da una vita in fiore. A vent’anni  già teneva il fuoco della poesia nelle mani. Aveva solo vent’anni e si chiedeva: “Se muore la speranza/e risorge la Babele,/quale torcia farà luce/sulle strade della terra?”

Era la sua Canzone d’autunno. Quella delle rose, bianche di neve. Bianche come la pena del giovane poeta sulla cui anima pure nevica. Cade poi la neve dalle rose, ma nell’anima rimane.

pabloInfanzia e adolescenza di García Lorca si congiungono nel Libro de Poemas. Dell’infanzia il poeta cantava la tristezza del suo “cuore ignorato”. Tanto peso ha ancora quella tristezza perché gli ricorda giorni lontani. Se volete che passi, dice ai bambini buoni del prato, raccogliete ancora, raccogliete sempre garofani e rose di maggio. È la sua Ballata triste. L’adolescenza crediamo sia tutta nel suo desiderio poetico di sfogliare la luna, inseguire nella notte il nome d’una ragazza amata, che risuona più lontano ormai di tutte le stelle ed è “più dolente della dolce pioggia”.

Alberi che cantano e chiari mattini, acqua e miele nella sua poesia. Tanta acqua, tanto miele nel Libro de Poemas, in quest’opera unita alla sua stessa vita. Acqua che spegne la nostra sete, quando la baciamo, e ci unge la fronte nel battesimo. Berla è la “sola perfetta condizione”: torniamo bambini e più buoni. Acqua di pioggia silenziosa le cui morte gocce sopra i vetri mutano in tristezza il nostro ottimismo. Acqua di fiume su cui si ricama la luna col suo sorriso. Più luna che mai. Acqua di mare da cui vengono le lacrime salmastre delle madri e la grave amarezza del cuore.

Acqua e miele. Tutti i poeti hanno sempre saputo che la poesia è l’esperienza della liquidità. Pindaro beveva acqua prima di comporre versi e Orazio preferiva il miele di cui la poesia ha il sapore e per questo rende liquide, amabili, dolci anche le cose più tragiche. Per García Lorca la poesia è dolcissimo miele, liquore divino di quella speranza che solo se non muore può essere torcia di luce sulle strade della terra dove è risorta la babele. L’omicidio a Granada di questo poeta, ad opera dei mostri impegnati nella reconquista della Spagna, cambiò la poesia di Pablo Neruda. Qualche tempo dopo, mentre si cominciava a perdere la guerra e si delineava la disfatta della Repubblica, il poeta cileno scrisse un libro – un libro stampato al fronte – che s’intitolava Espana en el corazón. Finì negli zaini dei sopravvissuti dell’Esercito dell’Est in marcia verso l’esilio. Era un’immensa colonna bombardata centinaia di volte. I libri dei soldati colpiti finirono sulla strada.

Gaetano Cellura

Nelle foto: i poeti Lorca e Neruda