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frana-1280Tutti mobilitati: i carabinieri al comando del maggiore Pavia; gli agenti della Mobile e della Polizia stradale coordinati dal questore Gambino; i vigili urbani avanti e indietro per la città con due autovetture; il prefetto Giagu insieme al sindaco e all’ingegnere capo del Genio Civile per fare il punto della situazione. Tutti invitano i cittadini alla calma. Ma il panico è generale e in certi momenti fuori controllo. Si pensa a qualcosa più grave d’una frana e si vedono scene di padri e madri che corrono con i bambini in braccio, figli che trasportano padri vecchi e familiari paralitici, famiglie che scappano con masserizie e preziosi verso la periferia. Molti disabili vengono portati all’ospedale San Giovanni di Dio stracolmo. Anche nei paesi vicini si diffonde il panico: la sensazione è quella di un terremoto che avanza e che non colpisce solo il capoluogo.

Sono i giorni del Mondiale inglese. L’Italia viene umiliata dalla Corea e il Brasile perde con l’Ungheria. L’allarme ad Agrigento era stato dato all’alba di quel fatidico 19 luglio del 1966. Il netturbino Francesco Farruggia fa il suo quotidiano giro di lavoro e vede delle crepe nella strada dove sorgono il palazzo Salemi e un altro, più in là, in costruzione. Già immagina quanto sta per accadere. Grida a tutti di uscire dalle case e mettersi in salvo. La voce corre di rione in rione, crea allarme anche nelle zone che non saranno interessate dalla frana. È grazie al tempismo di questo netturbino – cui solo ora, a distanza di cinquant’anni, si sta pensando d’intitolare una strada – se i crolli non causano vittime.

L’allarme ufficiale viene dato alle 7,10 con una telefonata ai carabinieri. Ma solo intorno alle 11 ci si rende conto della catastrofe: e si tratta comunque di un primo bilancio, di un primo esame parziale che serve almeno a escludere l’ipotesi del terremoto. D’altra natura sono le cause del disastro di via Santo Stefano. Una falda acquifera che ha minato le fondamenta delle case? Si dice questo in un primo momento. Questo pensano i residenti più direttamente colpiti e quelli di una più estesa zona tra il Duomo, il Seminario e l’Istituto Salesiano. Per l’ingegnere del Genio Civile si tratta probabilmente di una frana d’origine tettonica che pone a rischio altri venti edifici, soprattutto quelli di nuova costruzione.

frana002-1Ma Agrigento intanto è impazzita: tra la gente che scappa, o colta da malore, donne in gravidanza e i bagnanti che fanno ritorno da San Leone per soccorrere i parenti o per provare a mettere in salvo quanto di necessario hanno lasciato nelle case. I telefoni vanno in tilt e rendono più caotica, drammatica e congestionata la situazione.

Una frana preparata giorno per giorno scrive sull’Ora Corrado Catania. Dalla speculazione edilizia, dai controlli inesistenti, dal caos amministrativo. Licenze concesse per costruire palazzi di dieci piani senza alcun riguardo per il particolare equilibrio millenario – di tufo calcareo e di argilla friabile – della Città dei Templi.

Una frana evitabile: tante responsabilità politiche, tanta incuria. Tra le sue possibili concause – riconosce subito nella riunione in prefettura  il professor Floridia, geologo dell’università di Palermo – c’è il “peso delle nuove costruzioni che potrebbero aver turbato l’equilibrio preesistente”. Ma la notizia bomba è quella dell’ingegnere Rizzica, per cinque anni membro della commissione edilizia del comune di Agrigento. Ai giornalisti legge una sua dichiarazione messa a verbale undici anni prima della frana, il 24 giugno del 1955. Rizzica vedeva “con gli occhi del futuro” e manifestava la propria assoluta contrarietà alla costruzione di fabbricati nella zona poi crollata spaventosamente. Zona definita franosa sin dal 1870 dallo studioso tedesco Schubring, che si occupava degli ipogei sottostanti scavati dai greci per la raccolta e il trasporto delle acque.

Niente avviene per caso. In pieno boom edilizio, il guaio di Agrigento fu d’inventare aree edificabili contro la natura e la sua stessa antica storia.

Gaetano Cellura