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1072Antonio Roccuzzo, uno dei ragazzi che collaboravano con I Siciliani di Pippo Fava, ha ricordato sul Fatto quotidiano quel mattino del 10 febbraio di trent’anni fa in cui iniziò il maxiprocesso a Cosa nostra nell’aula bunker dell’Ucciardone. I titoli dei giornali sui mafiosi finalmente alla sbarra, il vento di tramontana che soffiava su Palermo e il clima per nulla meteorologico di una città che non mostrava completo unanimismo su quello storico avvenimento.

Qualche giorno prima il Giornale di Sicilia aveva definito “giudici sceriffi” Falcone, Borsellino e i loro collaboratori; e si preoccupava del fango mediatico che, per il processo, avrebbe investito la città. Non mancavano neppure quelli che ritenevano incostituzionale la legge Rognoni-La Torre sulla confisca dei beni ai mafiosi.

Roccuzzo era allora un giovane giornalista antimafia di 28 anni ancora segnato dall’omicidio di Pippo Fava soprattutto, ucciso dalla mafia a Catania due anni prima, ma anche da quello (nel 1985) di Antonino Cassarà, capo della Squadra mobile di Palermo.

Cosa nostra aveva fatto il vuoto attorno al pool di magistrati, voluto da Antonino Caponnetto dopo l’uccisione di Rocco Chinnici. Ma la maxi inchiesta era andata avanti lo stesso fino alla condanna definitiva dei boss.

Non è semplice in un breve articolo offrire un quadro completo di quegli anni. Ma Roccuzzo riesce lo stesso a farci ricordare particolari col tempo in parte sfuggiti alla nostra memoria. I titoli dei giornali appunto (anche di un giornale come L’ora che ha poi cessato le pubblicazioni), quanto costavano un pacchetto di sigarette, un caffè e il gettone telefonico per dettare dalle cabine pubbliche il pezzo alle redazioni, come i giovani si bucavano nelle strade, il sindaco di Palermo che era Orlando con una giunta per la prima volta “anomala”, il presidente del Consiglio che era Bettino Craxi, con Giulio Andreotti ministro degli esteri e l’omicidio (dopo i primi mesi del processo) di un bambino di undici anni. Si chiamava Claudio Domino, ammazzato “come un cane da due killer in moto”. Era figlio dell’addetto alle pulizie dell’aula bunker. E infine – questo per rinfrescarla a tutti la memoria – come per le condanne di quel maxiprocesso, che la Cassazione non riuscì ad “aggiustare”, la mafia la fece pagare a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino.  

(g.c.)