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livatinoFotogramma_50839301_300La natura, per Rosario Livatino, era “un dono di Dio che noi trascuriamo”. Domenico Bruno parla (Avvenire del 27 aprile) della sua collaborazione con il giudice senza scorta ucciso dalla mafia il 21 settembre del 1990, sul viadotto Gasena, lungo la statale Caltanissetta-Agrigento. Ed è una testimonianza inedita quella del commissario del Corpo forestale regionale.

Si conobbero nel 1983. In seguito a una notizia di reato che Bruno, allora comandante del distaccamento forestale di Agrigento, aveva mandato in tribunale e che riguardava l’incendio doloso di un rimboschimento a Licata: “Invece di mettere le piante avevano messo dei semplici ramoscelli, ma prima della verifica del lavoro tutto era stato bruciato per far sparire le prove”.

Il giovane giudice di Canicattì si dimostrò molto interessato alla vicenda dei tanti incendi boschivi, che non potevano essere casuali. E cominciò a indagare con impegno. “Non guardando solo a chi appiccava le fiamme,– dice Bruno – ma anche a chi c’era dietro”. E cosa c’era dietro? C’era un piano regionale antincendi mai applicato. Nessuna prevenzione. Nessuna formazione del personale, assunto perlopiù in modo clientelare. Soprattutto: c’erano dietro interessi speculativi.

Il Commissario della Forestale ricorda tutto. E definisce fantastico il loro primo incontro. Aveva con il giudice un rapporto d’affetto oltreché professionale. Ogni mattina lo vedeva fermarsi, per pregare, nella chiesa di San Giuseppe ad Agrigento, prima di raggiungere il tribunale. Ricorda il suo rispetto per Madre Natura, la determinazione che metteva nel lavoro e che lo faceva odiare dai mafiosi. “Una determinazione come la sua – dice – doveva per forza avere qualcosa dietro, una fede profondissima”.

Poi ricorda il giorno dell’omicidio e gli occhi gli si inumidiscono. Domenico Bruno tornava da Palermo e vide tante auto delle Forze dell’ordine. Qualcosa di grave doveva essere accaduto. La sera partecipò alla fiaccolata ad Agrigento. E sentiva che l’assassinio di Livatino era una grande perdita anche per lui. Il giudice aveva toccato interessi importanti. Confiscato i beni dei mafiosi. Terreni (250 ettari) a gente del suo paese e altri nelle contrade di Naro.

Infine, il ricordo dell’invettiva di papa Wojtila contro la mafia nella Valle dei Templi. Emozione fortissima anche quella. “Finalmente qualcuno gettava una pietra nello stagno”. Il commissario Bruno dice d’aver saputo in seguito che poco prima il Papa aveva incontrato i genitori di Livatino. E ne “era rimasto molto toccato”.

Gaetano Cellura