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dottore marraliAnni all’apparenza buoni, come il 1971. E altri di “delusione e sconforto”, come il 1974. Anni d’intraprendenza, come il lontanissimo 1872. Quando i “nostri Avi”, sfidando l’ostilità e il disinteresse dei governi, “con i propri mezzi” realizzarono il porto. Anni di “economia felice”: dal 1930 allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Licata, già dotata di luce elettrica, aveva allora in attività ben cinque raffinerie di zolfo, il Deposito per la manutenzione delle locomotive e un tronco che collegava la stazione al porto in espansione. Seicento navi vi attraccavano “con oltre 150 mila tonnellate di merci”. E anni di caduta, in parte dovuti ai danni della guerra e in parte al mutato scenario economico postbellico.

Dalla chiusura, per le bombe e i fallimenti, delle raffinerie e dello stabilimento Verderame (agosto 1941) a quelle della Montecatini e della miniera di Passarello è tutto un racconto di momenti di crisi, uno dopo l’altro. Cui si aggiungono il netto calo dell’attività commerciale del porto, lo smantellamento del Deposito Locomotive e, in seguito, la chiusura dei pastifici San Giuseppe e San Giorgio. Una situazione complessiva di disoccupazione e di impoverimento sociale che s’incrocia con le prime ondate di moderna emigrazione licatese. Verso la Germania, il Belgio e il nord Italia del triangolo industriale.

È la sintesi di un particolareggiato lavoro di qualche anno fa del dottor Vincenzo Marrali, primario emerito di pediatria, uomo politico ed ex sindaco della nostra città. S’intitola Licata una città che muore nel silenzio. Quadro storico e sociale ricco di documenti sugli impegni assunti dai governi nazionali e regionali per il suo rilancio economico e subito rimangiati a favore di altre città della provincia; di infrastrutture e industrie promesse e mai realizzate.

Il dottore Marrali, autore di altri testi di divulgazione sociologica e scientifica, divide la storia moderna di Licata in due fasi. Quella delle “occasioni scippate” e quella delle “occasioni svanite”.

foto rovelliDella prima fanno parte la centrale termoelettrica della fine degli anni Cinquanta, “di punto in bianco localizzata a Porto Empedocle”; e, vent’anni dopo, la scelta di Ravanusa, al posto di Licata ovest, come agglomerato dell’ASI (Area Sviluppo Industriale) di Agrigento. “Atto di pirateria politica” lo definisce il dottore Marrali.

Nella seconda fase troviamo la diga del Gibbesi, “eterna incompiuta”, e la doppia presa in giro dell’aeroporto di Piano Romano e della SARP-SIR. Naturalmente troviamo anche l’Halos, che arrivò a occupare 500 lavoratori. Inaugurata nel 1974 dal presidente della regione Bonfiglio, l’azienda tessile di contrada Bugiades entra presto in crisi e fallisce dopo vari tentativi di salvataggio. Il progetto iniziale della SARP-SIR prevedeva cinquemila posti di lavoro, poi ridimensionati a 450. Ma Licata non ne vedrà nemmeno uno perché nessuna industria petrolchimica verrà realizzata.

Il petroliere brianzolo Rovelli aveva acquistato e recintato, per la sua realizzazione, 380 ettari di terreno del barone La Lumia nella zona di Torre di Gaffe. Li ha pagati un miliardo di lire, ma ben tredici miliardi di aiuti li riceve intanto dalla Regione Siciliana. E alla fine per nulla. I terreni, “passati in proprietà dell’Ente Minerario Siciliano, sono stati venduti – scrive Marrali – a un privato di Palma di Montechiaro per circa 6 miliardi di lire”.

È una storia ben nota di finanziamenti alle correnti dei partiti che incomincia con l’imprenditore brianzolo padrone della SIR (Società Italiane Resine) e finisce con il democristiano Graziano Verzotto, presidente dell’Ente Minerario Siciliano di cui la SARP era una società. È una storia di scontri senza quartiere tra andreottiani e fanfaniani. E sarà proprio il senatore fanfaniano Vincenzo Carollo, ex Presidente della Regione, a denunciare pubblicamente il caso SARP di Licata.

verzotto fotoRovelli, che era amico di Andreotti, del ministro Giulio Pastore, del presidente Leone e del socialista Giacomo Mancini, puntava molto sugli incentivi statali per lo sviluppo del Mezzogiorno in cui anche il progetto SARP-SIR rientrava. E aveva le amicizie giuste per ottenerli. L’accordo per l’impianto petrolchimico di Licata viene firmato nel 1972 nel paradiso fiscale di Vaduz, dove aveva sede la SIR International.

Nel frattempo, travolto dallo scandalo dei fondi neri dell’Ente Minerario Siciliano, Verzotto si dà alla latitanza in Libano e a Parigi per evitare le manette. Era venuto dal Veneto nel 1955. Mandato da Fanfani per mettere ordine nella Dc siciliana, di cui fu segretario regionale per quattro anni. Nel 1968 fu pure eletto senatore nel collegio di Noto. Verzotto è in quegli anni uno dei più misteriosi e potenti uomini politici italiani. È stato partigiano, amico di Enrico Mattei (di complicità nel suo presunto omicidio e in quello di Mauro De Mauro viene sospettato), amico del presidente Nixon, amico anche di Michele Sindona e compare di nozze del boss Di Cristina.

Il politico veneto-siculo, segretario provinciale della Dc di Siracusa, città di cui era innamorato, è considerato il vero liquidatore del governo Milazzo. Pare che Aldo Moro un giorno gli abbia detto: “Più passa il tempo e più ammiro i Borboni: governavano le due Sicilie, noi non siamo in grado di governarne una sola”. Latitante per sedici anni, tanti sospetti sul suo conto ma alla fine una sola condanna con pena condonata. Per quei fondi neri ai dirigenti dell’EMS di cui, secondo i giudici, lui “non poteva non sapere”.

Quanto ai capitali investiti dall’Ente Minerario Siciliano per l’impianto industriale mai sorto a Licata, restano nelle mani di Nino Rovelli che pretende pure un risarcimento. Il Clark Gable della Brianza, come lo chiamavano per la sua somiglianza con l’attore americano, aveva già realizzato un polo petrolchimico a Porto Torres, controllava banche e giornali, la sua SIR era il terzo gruppo chimico in Italia. Dai 22 miliardi iniziali era passata, in tredici anni, ai 1175 miliardi di fatturato, ma aveva debiti con le banche per più di 2 mila miliardi a metà degli anni Settanta.

È una storia di banche lottizzate dalla Democrazia cristiana, di scontri tra la chimica privata e quella pubblica, tra l’andreottiano Rovelli e la Montedison del fanfaniano Eugenio Cefis; e soprattutto è una storia di politiche di centrosinistra che dilapidano soldi dello Stato, contributi a fondo perduto per costruire cattedrali nel deserto.

La crisi petrolifera degli anni Settanta è una vera mazzata per le ulteriori ambizioni di Rovelli, che da quel momento dovrà fare i conti con una serie di lunghe cause in tribunale con L’IMI, la banca che si era più esposta per finanziarne i progetti e che a un certo punto non è più disposta a farlo portando così la SIR al fallimento.

È una storia, questa della SARP, che il dottore Marrali conosce bene. Come tutti quelli che a Licata conservano buona memoria di quei tempi. Tempi di sogni svaniti all’alba. E di amari risvegli. Tempi in cui Licata non aveva ancora capito che un solo tipo di sviluppo le era congeniale: lo sviluppo turistico. E cadeva spesso nell’illusione, alimentata dalla demagogia politica, di programmazioni industriali che avrebbero recato inquinamento e distruzione dell’ambiente.

Per tornare al medico licatese, non c’è vittimismo nella sua disamina storica su “quel che resta di un sogno”, tra occasioni scippate e altre svanite. Sebbene la conseguenza sia la “crisi economica, sociale e culturale in cui Licata si dibatte”. Si dibatte nel silenzio. Era il 1991 quando, introducendo un comizio di Achille Occhetto, elencò al segretario del Pds i problemi della città, in una piazza Progresso gremita.

Non c’è vittimismo nel suo libro perché come il dottore Marrali (giustamente) dice la responsabilità dei fatti è degli “altri”, e cioè dei politici dell’agrigentino che ci hanno ignorato o preso in giro; degli altri “quanto di noi stessi”. Che li abbiamo votati.

Gaetano Cellura

Foto del dottore Marrali, di Rovelli e di Verzotto